JON SKYE
Per richieste sui diritti letterari, pubblicitari e cinematografici: JonSkye00@gmail.com
All rights reserved - 2025

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1
Lui era il prescelto.
L'unico degno del Diamante Nero.
Ne era stato sempre convinto, fin dal primo momento che aveva sfiorato quella pietra.
E ora, a quarantotto anni, quella convinzione era ancora più forte, mentre il dottore incrociava le mani sulla scrivania con un'espressione neutra, e il ventilatore girava pigro sopra le loro teste.
«Parliamo di mesi, non di anni. Mi dispiace, signor Vetrano.»
Salvatore espirò.
Mesi. Non anni.
Annuì, più per sé stesso che per il medico. «Bene,» disse, raddrizzando le spalle, «suppongo che questo semplifichi le cose.»
Il dottore esitò, chiaramente aspettandosi una reazione diversa.
Salvatore non gliela diede. Si alzò, abbottonandosi la giacca grigio antracite con dita ferme. «Grazie per la sua franchezza, dottore.»
Uscì dallo studio e l'aria umida sapeva di asfalto bagnato e gas di scarico vicino al molo del Red Hook. Una sirena ululava in lontananza.
Suo figlio Tommy lo aspettava al volante della Cadillac DeVille rubata, stringendo tra le labbra una sigaretta spenta.
Salvatore attraversò pensieroso il marciapiede. In queste strade malfamate che chiamava casa, ogni peccato portava il nome di Tommy.
«Allora? Fatto?» disse Tommy senza nemmeno voltarsi.
«Dobbiamo tornare in Sicilia.»
Tommy sputò la cicca dal finestrino e mise in moto. «Scordatelo.»
Salvatore tacque. Guardò suo figlio: aveva già ventisette anni, ma ogni giorno diventava sempre più un estraneo. Poi il suo sguardo si posò sulle Torri Gemelle appena inaugurate. Simbolo di un futuro irraggiungibile.
Per Salvatore c'era solo il passato, a ricordargli i vecchi debiti rimasti in sospeso da troppo tempo.
E il tempo, a quanto pareva, era l'unica cosa che non aveva
2
Non aveva niente di suo padre.
Né foto, né ricordi.
Solo un nome.
Neil Clark.
Quel vuoto, però, Gianni Terranova l'aveva riempito con la sua isola.
Galatea era tutto il suo universo.
Un minuscolo paradiso vulcanico incastonato nel Mediterraneo.
A dieci miglia dalla costa di Trapani, si ergeva come un gioiello nero, con le sue viuzze in pietra lavica e le casette dipinte di bianco.
Nato e cresciuto su quella terra battuta dai venti, aveva trovato nel mare il suo vero padre. Ne conosceva ogni umore: dalle albe estive alle tempeste invernali, fino ai silenzi carichi di promesse prima della pesca. E il mare l'aveva sempre ricompensato con reti piene.
Per Gianni, che era diventato l'uomo di casa già a undici anni, e che ora ne aveva ventotto, pescare non era solo un mestiere, ma l'unico modo per sopravvivere.
Gli anni Settanta portavano voci di cambiamento dal continente, sussurri di un possibile sviluppo turistico che sembrava più un miraggio che realtà. Si parlava di stabilimenti balneari, di strutture ricettive, di un collegamento più frequente con la terraferma. A Galatea erano comparse le prime antenne televisive sui tetti, e con esse le immagini di un'Italia che correva, mentre l'isola restava sospesa in un limbo e sempre più sola.
La verità è che dal dopoguerra, quasi tutti avevano fatto le valigie, emigrando nella terra di suo padre. L'America. Ma nessuno di loro era stato in grado di scoprire che fine avesse fatto quell’uomo che era andato via prima ancora che Gianni nascesse.
Se fosse stato ancora vivo, avrebbe avuto quarantasette, rifletté. Si domandò poi se, incontrandolo per la prima volta, lo avrebbe mai riconosciuto. Chissà. Chissà se anche lui, tanti anni prima, avesse contemplato lo stesso orizzonte prima di scomparire per sempre dalla sua vita.
Come ogni sera, Gianni sedeva sulla banchina accanto al molo, pensando a lui, mentre le sue mani esperte lavoravano sulle lenze. Gli altri pescatori, più prudenti, avevano già portato le barche al riparo, messi in guardia dall'afa opprimente e dal libeccio che cambiava direzione.
Una folata di vento gli scompigliò i ricci scuri sulla fronte - il temporale si stava avvicinando.
Ma lui aveva un compito da portare a termine, e non poteva più rimandare.
Il familiare rumore di passi interruppe il filo dei suoi pensieri. Non ebbe bisogno di voltarsi.
Era sua madre Adele che, puntuale come sempre, veniva a dargli le ennesime raccomandazioni.
«Sei sicuro di voler andare con questo maltempo?»
«Ne abbiamo già parlato.»
«Ti prego, fai attenzione, il mare non ha caverne...» sussurrò lei, ricordandogli che il mare non offre scampo né rifugio a chi si trova in difficoltà.
«E copriti bene, che fa freddo e poi ti viene la febbre.» continuò, sistemandogli berretto di lana che gli aveva fatto a maglia.
«Mamma, posso farlo da solo,» mormorò lui, trattenendo un sospiro.
Non importava quante volte lo avesse visto salpare, l’ansia era la sua fedele compagna.
«Zitto e lascia fare a me. Hai mangiato? Aspetta...» Adele frugò nella tasca del grembiule ed estrasse una piccola scatola di latta decorata. «Guarda cosa ti ho portato.» Aprì il coperchio rivelando dei biscotti a forma di cuore. Erano i suoi preferiti, un piccolo tesoro che custodiva gelosamente. «Prendine almeno uno, sei troppo magro.»
Gianni la osservò mentre si stringeva lo scialle nero sulle spalle, sempre più curve. Aveva solo quarantasei anni, ma mostrava i segni di una vita di fatiche e preoccupazioni. Per non darle un dispiacere, ne prese uno e lo infilò nella tasca interna della cerata, ignorando lo strappo che si allargava nel tessuto. Meglio non farglielo notare, o non l'avrebbe lasciato partire prima di averlo ricucito. Non c'era un altro minuto da perdere.
«E mi raccomando, svegliami quando torni, lo sai come sono fatta.» gli ricordò, anche se entrambi sapevano che non avrebbe chiuso occhio fino al suo rientro.
«Va bene, adesso però torna a casa e cerca di riposare.»
«Giuramelo.»
«Te lo giuro, mamma,» rispose guardandola negli occhi.
Era più di una semplice rassicurazione. Era un patto tra loro.
La promessa di tornare sano e salvo e di non lasciarla mai come aveva fatto suo padre.
3
Neil Clark si alzò sull'orlo della scarpata, una figura solitaria contro il cielo notturno.
Dopo ventotto anni lontano da Galatea, il profumo del deserto risvegliò i ricordi di quell'isola in cui tutto era iniziato.
La mano scivolò nella tasca della giacca e le dita trovarono la lettera sgualcita di Adele.
Non c'era bisogno di aprirla. Conosceva ogni piega, ogni imperfezione, così come la promessa che lui non aveva mantenuto. Ricordò quella maledetta notte e tutto quello che aveva sacrificato e perso.
Mai più, mormorò, passandosi una mano sulla testa rasata a zero. Il cronometro al polso segnava le
23:47.
Aveva memorizzato i turni delle guardie, le posizioni delle telecamere, ogni possibile via di fuga. La sua mente cercò rifugio in quella familiare routine operativa, nella freddezza dell'addestramento militare che aveva segnato i suoi quarantasette anni di sbagli.
Questa volta però, non avrebbe fallito.
Abbassò lo sguardo verso l'abisso che si apriva ai suoi piedi.
Sotto di lui si spalancava Teliza, una delle più grandi miniere di diamanti a cielo aperto del mondo. Tra lei e la città di Dakar c'erano solo dune che si estendevano a perdita d'occhio. L'enorme voragine sembrava inghiottire la terra stessa, e sotto i raggi della luna piena, l'intero cratere brillava come un gigantesco diamante grezzo. Sul fondo, appena visibili, alcuni macchinari ricoperti di polvere giacevano immobili.
Tutto appariva abbandonato e spettrale.
Una città fantasma nel deserto.
Si spostò lungo il pendio, ma una pietra scivolò sotto i suoi stivali, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Il suo corpo reagì d'istinto. Nonostante gli anni cominciassero a farsi sentire, un Marine resta sempre un Marine.
Intercettò un camion che viaggiava lungo una strada a spirale formando cerchi concentrici. I fari tracciavano un solco di luce nell'oscurità, il cassone stracolmo di detriti e sabbia. Calcolò ogni dettaglio in un lampo: velocità, distanza, curve. Tra esattamente quattordici minuti, il mezzo sarebbe passato proprio sotto di lui, offrendogli una sola opportunità.
Strinse la presa sulla fune, inspirò profondamente e poi espirò lentamente, svuotando i polmoni.
Il rombo del motore si fece sempre più forte e l'aria calda s'increspò nell'atmosfera gelida. Quando il veicolo fu sotto di lui, si chinò sul bordo del baratro e si calò. Il vento ululava creando vortici imprevedibili che lo costrinsero a lasciare la presa prima del previsto. Atterrò con un impatto brusco e un dolore acuto gli attraversò il braccio. Le rocce seghettate avevano lasciato il segno e il sangue caldo gli colò lungo il polso, ma lui non emise nessun lamento.
La missione non poteva fallire per una semplice ferita.
Luci perimetrali illuminavano il complesso minerario fatto da una serie di edifici industriali, enormi tubature e capannoni di lamiera.
Aveva una sola possibilità. Se avesse sbagliato tempismo, sarebbe finito sotto tonnellate di roccia tritata o, peggio, nelle mani delle guardie Lanclair. E le guardie Lanclair non facevano prigionieri. Il camion rallentò sotto il braccio meccanico del nastro trasportatore. Neil trattenne il respiro. Ora.
Un sibilo idraulico squarciò il silenzio. Il portellone posteriore scattò e il cassone vibrò. Poi l'inclinazione brusca, il metallo che urlava. Neil scivolò insieme alla cascata di detriti.
Non pensò.
Balzò fuori dal camion poco prima che una valanga di rocce precipitasse sul nastro.
Rotolò dietro alcune botti di nafta, il respiro pesante. Da lì vide il guardiano notturno emergere dalla guardiola, la sua sagoma era inconfondibile contro le luci al sodio. I mesi passati a studiare i turni, a memorizzare ogni dettaglio della routine del personale... tutto convergeva in questi minuti.
Si mosse nel buio, invisibile e veloce. La finestra del secondo piano era socchiusa, esattamente dove il suo informatore aveva detto che sarebbe stata. La tubatura esterna era robusta, i suoi guanti in pelle trovarono presa sulla superficie ruvida. Salì senza fare rumore, ogni movimento calcolato e preciso.
Raggiunta la finestra e rimase in ascoltò.
Niente.
Solo il ronzio distante dei macchinari.
Scivolò dentro e l'odore di prodotti chimici e olio industriale gli invase le narici.
Aveva otto minuti prima del prossimo giro di ronda. Otto minuti per raggiungere il caveau della Lanclair Diamonds.
Il corridoio era un tunnel d'ombra. La piantina mentale che aveva memorizzato gli indicava la strada: terza porta a sinistra, poi giù per le scale di servizio, corridoio est...
Un rumore di passi lo gelò sul posto. Non previsto. Non a quest'ora.
Si appiattì contro la parete in una nicchia, la mano che scivolava automaticamente verso la Star Model BM nella fondina ascellare. Due guardie avanzavano nella sua direzione con le torce accese. Valutò rapidamente: il primo era alto e massiccio, portava l'arma nel fodero sulla coscia destra. Il secondo era più basso, nervoso, la mano già sulla pistola d'ordinanza. Entrambi indossavano il giubbotto antiproiettile sotto le uniformi nere della Lanclair.
Trattenne il respiro mentre i fasci di luce lambivano il suo nascondiglio. Ancora due secondi e sarebbero passati oltre. Ancora uno...
Una goccia calda scivolò dal taglio sul suo braccio, precipitando con un suono quasi impercettibile sul pavimento lucido.
Le guardie si bloccarono all'istante.
«Hai sentito?» sussurrò il più basso.
Neil strinse l'impugnatura della pistola.
Non era venuto fin qui per uccidere, ma non avrebbe lasciato che il Diamante Nero gli sfuggisse.
Non com’era successo la prima volta a Galatea.
Non per colpa di Adele.
4
«Fa' attenzione,» sussurrò Adele, ma la sua voce si perse nel vento che stava cambiando direzione.
Gianni si allontanò lungo gli scogli umidi, il secchio consumato dal sale oscillava contro la sua gamba.
Il cielo si era trasformato in una volta di nuvole che schiacciavano l'orizzonte. E il mare si increspava con un ritmo irregolare, segno che la tempesta sarebbe arrivata prima del previsto.
Laggiù, ormeggiata in fondo al piccolo molo, la sua barchetta attendeva paziente. Fino a tre settimane prima spiccava con quella sua vernice arancione. Ora, dopo cinque notti di lavoro, si confondeva con le acque notturne. Blu scuro, quasi invisibile.
Nessuno doveva sospettare.
Sua madre aveva insistito per ribattezzarla Leucotea. La dea greca che aveva salvato Ulisse donandogli un velo magico. Ma ogni passo di Gianni era carico di segreti e bugie e nessun velo avrebbe potuto salvarlo se questa notte fosse andata storta.
Si voltò un'ultima volta.
Lei era ancora lì, le mani strette sul grembiule come se cercasse di trattenere qualcosa che stava per sfuggirle.
Gianni represse l'impulso di tornare indietro. Di confessarle tutto. Di dirle che non c'era altro modo per tirarli fuori da quel buco di miseria.
Le rivolse invece un cenno secco della mano e si girò dall’altra parte prima che il suo volto potesse tradirlo.
Si domandò se suo padre avesse provato la stessa sensazione quando l’aveva abbandonata al suo destino. Non l’avrebbe mai saputo, perché non l’aveva mai conosciuto.
Un tuono in lontananza lo riportò al presente. Non c'era più tempo per i ricordi o i dubbi.
Il piano era chiaro, e la notte senza luna era l'unica occasione che aveva.
Saltò a bordo con l'agilità di chi conosce ogni centimetro della propria barca. Prima di sciogliere gli ormeggi, si chinò nella cabina puzzolente di gasolio e pesce marcio, sollevò l'asse del pavimento con la lama del coltello. Nascose la lanterna a gas, il passamontagna nero, l'arpione con la punta affilata. Le dita gli tremarono quando sfiorò la pistola. Una Beretta compatta e pesante. Non avrebbe mai voluto portarla, ma dopo quello che era successo a Luciano non poteva correre nessun rischio. L’avevano trovato a faccia in giù, gonfio come una medusa, con la schiena trasformata in carne macinata dai colpi.
Era stato Vincenzo Carbone. Ma da queste parti, nessuno vedeva, sentiva o parlava.
Armeggiò con i nodi delle corde solo per tenere occupata la mente. Il vecchio motore della Leucotea tossì tre volte prima di svegliarsi con un ruggito rauco e una sottile scia si disperse nell'aria quando lasciò il molo.
Il vulcano dominava l'isola come un dio furioso, con nuvole che si addensavano sulla cima fumante. Fumo nero si alzava dal cratere ormai da giorni. Nelle ultime ore, piccole scosse avevano fatto tintinnare i bicchieri sulle mensole, proprio come prima dell'eruzione del '43 che aveva spazzato via metà del villaggio orientale. Gianni non era ancora nato, ma da dopo lo sbarco degli alleati, la gente diceva che quando l'acqua dei pozzi diventava torbida e calda, mancavano solo tre giorni. Sapeva che erano solo dicerie, eppure, ieri mattina, sua madre aveva trovato il pozzo dietro casa così caldo da non poterci immergere le mani.

Sei davvero sicuro di voler continuare?
Tutti bramano il Diamante Nero, ma ottenerlo trasformerà la tua vita in una spietata lotta per la sopravvivenza. Sarai costretto a confrontarti con una storia che dura da millenni. Una storia che cambierà per sempre il tuo destino.
In questo romanzo d'esordio, Jon Skye ti sfiderà a scoprire il prezzo incalcolabile dell’ossessione e dei desideri.
JON SKYE
Per richieste sui diritti letterari, pubblicitari e cinematografici: JonSkye00@gmail.com
All rights reserved - 2025




1
Lui era il prescelto.
L'unico degno del Diamante Nero.
Ne era stato sempre convinto, fin dal primo momento che aveva sfiorato quella pietra.
E ora, a quarantotto anni, quella convinzione era ancora più forte, mentre il dottore incrociava le mani sulla scrivania con un'espressione neutra, e il ventilatore girava pigro sopra le loro teste.
«Parliamo di mesi, non di anni. Mi dispiace, signor Vetrano.»
Salvatore espirò.
Mesi. Non anni.
Annuì, più per sé stesso che per il medico. «Bene,» disse, raddrizzando le spalle, «suppongo che questo semplifichi le cose.»
Il dottore esitò, chiaramente aspettandosi una reazione diversa.
Salvatore non gliela diede. Si alzò, abbottonandosi la giacca grigio antracite con dita ferme. «Grazie per la sua franchezza, dottore.»
Uscì dallo studio e l'aria umida sapeva di asfalto bagnato e gas di scarico vicino al molo del Red Hook. Una sirena ululava in lontananza.
Suo figlio Tommy lo aspettava al volante della Cadillac DeVille rubata, stringendo tra le labbra una sigaretta spenta.
Salvatore attraversò pensieroso il marciapiede. In queste strade malfamate che chiamava casa, ogni peccato portava il nome di Tommy.
«Allora? Fatto?» disse Tommy senza nemmeno voltarsi.
«Dobbiamo tornare in Sicilia.»
Tommy sputò la cicca dal finestrino e mise in moto. «Scordatelo.»
Salvatore tacque. Guardò suo figlio: aveva già ventisette anni, ma ogni giorno diventava sempre più un estraneo. Poi il suo sguardo si posò sulle Torri Gemelle appena inaugurate. Simbolo di un futuro irraggiungibile.
Per Salvatore c'era solo il passato, a ricordargli i vecchi debiti rimasti in sospeso da troppo tempo.
E il tempo, a quanto pareva, era l'unica cosa che non aveva
2
Non aveva niente di suo padre.
Né foto, né ricordi.
Solo un nome.
Neil Clark.
Quel vuoto, però, Gianni Terranova l'aveva riempito con la sua isola.
Galatea era tutto il suo universo.
Un minuscolo paradiso vulcanico incastonato nel Mediterraneo.
A dieci miglia dalla costa di Trapani, si ergeva come un gioiello nero, con le sue viuzze in pietra lavica e le casette dipinte di bianco.
Nato e cresciuto su quella terra battuta dai venti, aveva trovato nel mare il suo vero padre. Ne conosceva ogni umore: dalle albe estive alle tempeste invernali, fino ai silenzi carichi di promesse prima della pesca. E il mare l'aveva sempre ricompensato con reti piene.
Per Gianni, che era diventato l'uomo di casa già a undici anni, e che ora ne aveva ventotto, pescare non era solo un mestiere, ma l'unico modo per sopravvivere.
Gli anni Settanta portavano voci di cambiamento dal continente, sussurri di un possibile sviluppo turistico che sembrava più un miraggio che realtà. Si parlava di stabilimenti balneari, di strutture ricettive, di un collegamento più frequente con la terraferma. A Galatea erano comparse le prime antenne televisive sui tetti, e con esse le immagini di un'Italia che correva, mentre l'isola restava sospesa in un limbo e sempre più sola.
La verità è che dal dopoguerra, quasi tutti avevano fatto le valigie, emigrando nella terra di suo padre. L'America. Ma nessuno di loro era stato in grado di scoprire che fine avesse fatto quell’uomo che era andato via prima ancora che Gianni nascesse.
Se fosse stato ancora vivo, avrebbe avuto quarantasette, rifletté. Si domandò poi se, incontrandolo per la prima volta, lo avrebbe mai riconosciuto. Chissà. Chissà se anche lui, tanti anni prima, avesse contemplato lo stesso orizzonte prima di scomparire per sempre dalla sua vita.
Come ogni sera, Gianni sedeva sulla banchina accanto al molo, pensando a lui, mentre le sue mani esperte lavoravano sulle lenze. Gli altri pescatori, più prudenti, avevano già portato le barche al riparo, messi in guardia dall'afa opprimente e dal libeccio che cambiava direzione.
Una folata di vento gli scompigliò i ricci scuri sulla fronte - il temporale si stava avvicinando.
Ma lui aveva un compito da portare a termine, e non poteva più rimandare.
Il familiare rumore di passi interruppe il filo dei suoi pensieri. Non ebbe bisogno di voltarsi.
Era sua madre Adele che, puntuale come sempre, veniva a dargli le ennesime raccomandazioni.
«Sei sicuro di voler andare con questo maltempo?»
«Ne abbiamo già parlato.»
«Ti prego, fai attenzione, il mare non ha caverne...» sussurrò lei, ricordandogli che il mare non offre scampo né rifugio a chi si trova in difficoltà.
«E copriti bene, che fa freddo e poi ti viene la febbre.» continuò, sistemandogli berretto di lana che gli aveva fatto a maglia.
«Mamma, posso farlo da solo,» mormorò lui, trattenendo un sospiro.
Non importava quante volte lo avesse visto salpare, l’ansia era la sua fedele compagna.
«Zitto e lascia fare a me. Hai mangiato? Aspetta...» Adele frugò nella tasca del grembiule ed estrasse una piccola scatola di latta decorata. «Guarda cosa ti ho portato.» Aprì il coperchio rivelando dei biscotti a forma di cuore. Erano i suoi preferiti, un piccolo tesoro che custodiva gelosamente. «Prendine almeno uno, sei troppo magro.»
Gianni la osservò mentre si stringeva lo scialle nero sulle spalle, sempre più curve. Aveva solo quarantasei anni, ma mostrava i segni di una vita di fatiche e preoccupazioni. Per non darle un dispiacere, ne prese uno e lo infilò nella tasca interna della cerata, ignorando lo strappo che si allargava nel tessuto. Meglio non farglielo notare, o non l'avrebbe lasciato partire prima di averlo ricucito. Non c'era un altro minuto da perdere.
«E mi raccomando, svegliami quando torni, lo sai come sono fatta.» gli ricordò, anche se entrambi sapevano che non avrebbe chiuso occhio fino al suo rientro.
«Va bene, adesso però torna a casa e cerca di riposare.»
«Giuramelo.»
«Te lo giuro, mamma,» rispose guardandola negli occhi.
Era più di una semplice rassicurazione. Era un patto tra loro.
La promessa di tornare sano e salvo e di non lasciarla mai come aveva fatto suo padre.
3
Neil Clark si alzò sull'orlo della scarpata, una figura solitaria contro il cielo notturno.
Dopo ventotto anni lontano da Galatea, il profumo del deserto risvegliò i ricordi di quell'isola in cui tutto era iniziato.
La mano scivolò nella tasca della giacca e le dita trovarono la lettera sgualcita di Adele.
Non c'era bisogno di aprirla. Conosceva ogni piega, ogni imperfezione, così come la promessa che lui non aveva mantenuto. Ricordò quella maledetta notte e tutto quello che aveva sacrificato e perso.
Mai più, mormorò, passandosi una mano sulla testa rasata a zero. Il cronometro al polso segnava le
23:47.
Aveva memorizzato i turni delle guardie, le posizioni delle telecamere, ogni possibile via di fuga. La sua mente cercò rifugio in quella familiare routine operativa, nella freddezza dell'addestramento militare che aveva segnato i suoi quarantasette anni di sbagli.
Questa volta però, non avrebbe fallito.
Abbassò lo sguardo verso l'abisso che si apriva ai suoi piedi.
Sotto di lui si spalancava Teliza, una delle più grandi miniere di diamanti a cielo aperto del mondo. Tra lei e la città di Dakar c'erano solo dune che si estendevano a perdita d'occhio. L'enorme voragine sembrava inghiottire la terra stessa, e sotto i raggi della luna piena, l'intero cratere brillava come un gigantesco diamante grezzo. Sul fondo, appena visibili, alcuni macchinari ricoperti di polvere giacevano immobili.
Tutto appariva abbandonato e spettrale.
Una città fantasma nel deserto.
Si spostò lungo il pendio, ma una pietra scivolò sotto i suoi stivali, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Il suo corpo reagì d'istinto. Nonostante gli anni cominciassero a farsi sentire, un Marine resta sempre un Marine.
Intercettò un camion che viaggiava lungo una strada a spirale formando cerchi concentrici. I fari tracciavano un solco di luce nell'oscurità, il cassone stracolmo di detriti e sabbia. Calcolò ogni dettaglio in un lampo: velocità, distanza, curve. Tra esattamente quattordici minuti, il mezzo sarebbe passato proprio sotto di lui, offrendogli una sola opportunità.
Strinse la presa sulla fune, inspirò profondamente e poi espirò lentamente, svuotando i polmoni.
Il rombo del motore si fece sempre più forte e l'aria calda s'increspò nell'atmosfera gelida. Quando il veicolo fu sotto di lui, si chinò sul bordo del baratro e si calò. Il vento ululava creando vortici imprevedibili che lo costrinsero a lasciare la presa prima del previsto. Atterrò con un impatto brusco e un dolore acuto gli attraversò il braccio. Le rocce seghettate avevano lasciato il segno e il sangue caldo gli colò lungo il polso, ma lui non emise nessun lamento.
La missione non poteva fallire per una semplice ferita.
Luci perimetrali illuminavano il complesso minerario fatto da una serie di edifici industriali, enormi tubature e capannoni di lamiera.
Aveva una sola possibilità. Se avesse sbagliato tempismo, sarebbe finito sotto tonnellate di roccia tritata o, peggio, nelle mani delle guardie Lanclair. E le guardie Lanclair non facevano prigionieri. Il camion rallentò sotto il braccio meccanico del nastro trasportatore. Neil trattenne il respiro. Ora.
Un sibilo idraulico squarciò il silenzio. Il portellone posteriore scattò e il cassone vibrò. Poi l'inclinazione brusca, il metallo che urlava. Neil scivolò insieme alla cascata di detriti.
Non pensò.
Balzò fuori dal camion poco prima che una valanga di rocce precipitasse sul nastro.
Rotolò dietro alcune botti di nafta, il respiro pesante. Da lì vide il guardiano notturno emergere dalla guardiola, la sua sagoma era inconfondibile contro le luci al sodio. I mesi passati a studiare i turni, a memorizzare ogni dettaglio della routine del personale... tutto convergeva in questi minuti.
Si mosse nel buio, invisibile e veloce. La finestra del secondo piano era socchiusa, esattamente dove il suo informatore aveva detto che sarebbe stata. La tubatura esterna era robusta, i suoi guanti in pelle trovarono presa sulla superficie ruvida. Salì senza fare rumore, ogni movimento calcolato e preciso.
Raggiunta la finestra e rimase in ascoltò.
Niente.
Solo il ronzio distante dei macchinari.
Scivolò dentro e l'odore di prodotti chimici e olio industriale gli invase le narici.
Aveva otto minuti prima del prossimo giro di ronda. Otto minuti per raggiungere il caveau della Lanclair Diamonds.
Il corridoio era un tunnel d'ombra. La piantina mentale che aveva memorizzato gli indicava la strada: terza porta a sinistra, poi giù per le scale di servizio, corridoio est...
Un rumore di passi lo gelò sul posto. Non previsto. Non a quest'ora.
Si appiattì contro la parete in una nicchia, la mano che scivolava automaticamente verso la Star Model BM nella fondina ascellare. Due guardie avanzavano nella sua direzione con le torce accese. Valutò rapidamente: il primo era alto e massiccio, portava l'arma nel fodero sulla coscia destra. Il secondo era più basso, nervoso, la mano già sulla pistola d'ordinanza. Entrambi indossavano il giubbotto antiproiettile sotto le uniformi nere della Lanclair.
Trattenne il respiro mentre i fasci di luce lambivano il suo nascondiglio. Ancora due secondi e sarebbero passati oltre. Ancora uno...
Una goccia calda scivolò dal taglio sul suo braccio, precipitando con un suono quasi impercettibile sul pavimento lucido.
Le guardie si bloccarono all'istante.
«Hai sentito?» sussurrò il più basso.
Neil strinse l'impugnatura della pistola.
Non era venuto fin qui per uccidere, ma non avrebbe lasciato che il Diamante Nero gli sfuggisse.
Non com’era successo la prima volta a Galatea.
Non per colpa di Adele.
4
«Fa' attenzione,» sussurrò Adele, ma la sua voce si perse nel vento che stava cambiando direzione.
Gianni si allontanò lungo gli scogli umidi, il secchio consumato dal sale oscillava contro la sua gamba.
Il cielo si era trasformato in una volta di nuvole che schiacciavano l'orizzonte. E il mare si increspava con un ritmo irregolare, segno che la tempesta sarebbe arrivata prima del previsto.
Laggiù, ormeggiata in fondo al piccolo molo, la sua barchetta attendeva paziente. Fino a tre settimane prima spiccava con quella sua vernice arancione. Ora, dopo cinque notti di lavoro, si confondeva con le acque notturne. Blu scuro, quasi invisibile.
Nessuno doveva sospettare.
Sua madre aveva insistito per ribattezzarla Leucotea. La dea greca che aveva salvato Ulisse donandogli un velo magico. Ma ogni passo di Gianni era carico di segreti e bugie e nessun velo avrebbe potuto salvarlo se questa notte fosse andata storta.
Si voltò un'ultima volta.
Lei era ancora lì, le mani strette sul grembiule come se cercasse di trattenere qualcosa che stava per sfuggirle.
Gianni represse l'impulso di tornare indietro. Di confessarle tutto. Di dirle che non c'era altro modo per tirarli fuori da quel buco di miseria.
Le rivolse invece un cenno secco della mano e si girò dall’altra parte prima che il suo volto potesse tradirlo.
Si domandò se suo padre avesse provato la stessa sensazione quando l’aveva abbandonata al suo destino. Non l’avrebbe mai saputo, perché non l’aveva mai conosciuto.
Un tuono in lontananza lo riportò al presente. Non c'era più tempo per i ricordi o i dubbi.
Il piano era chiaro, e la notte senza luna era l'unica occasione che aveva.
Saltò a bordo con l'agilità di chi conosce ogni centimetro della propria barca. Prima di sciogliere gli ormeggi, si chinò nella cabina puzzolente di gasolio e pesce marcio, sollevò l'asse del pavimento con la lama del coltello. Nascose la lanterna a gas, il passamontagna nero, l'arpione con la punta affilata. Le dita gli tremarono quando sfiorò la pistola. Una Beretta compatta e pesante. Non avrebbe mai voluto portarla, ma dopo quello che era successo a Luciano non poteva correre nessun rischio. L’avevano trovato a faccia in giù, gonfio come una medusa, con la schiena trasformata in carne macinata dai colpi.
Era stato Vincenzo Carbone. Ma da queste parti, nessuno vedeva, sentiva o parlava.
Armeggiò con i nodi delle corde solo per tenere occupata la mente. Il vecchio motore della Leucotea tossì tre volte prima di svegliarsi con un ruggito rauco e una sottile scia si disperse nell'aria quando lasciò il molo.
Il vulcano dominava l'isola come un dio furioso, con nuvole che si addensavano sulla cima fumante. Fumo nero si alzava dal cratere ormai da giorni. Nelle ultime ore, piccole scosse avevano fatto tintinnare i bicchieri sulle mensole, proprio come prima dell'eruzione del '43 che aveva spazzato via metà del villaggio orientale. Gianni non era ancora nato, ma da dopo lo sbarco degli alleati, la gente diceva che quando l'acqua dei pozzi diventava torbida e calda, mancavano solo tre giorni. Sapeva che erano solo dicerie, eppure, ieri mattina, sua madre aveva trovato il pozzo dietro casa così caldo da non poterci immergere le mani.


Sei davvero sicuro di voler continuare?
Tutti bramano il Diamante Nero, ma ottenerlo trasformerà la tua vita in una spietata lotta per la sopravvivenza. Sarai costretto a confrontarti con una storia che dura da millenni. Una storia che cambierà per sempre il tuo destino.
In questo romanzo d'esordio, Jon Skye ti sfiderà a scoprire il prezzo incalcolabile dell’ossessione e dei desideri.
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Per richieste sui diritti letterari, pubblicitari e cinematografici: JonSkye00@gmail.com
JON SKYE
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